Oltre 20mila presenze in 6 mesi

Il dettaglio di una stagione con il Crest in prima fila
 
Numeri alla mano. “Periferie”, la stagione di prosa del sabato sera, e “favole&TAmburi”, la rassegna domenicale per famiglie, hanno registrato 2855 presenze. “Scena futura”, le matinée riservate agli studenti degli istituti superiori di Taranto e provincia, e “Aprile dei diritti”, la riflessione condivisa con la Cgil Taranto su temi come la legalità, l’emergenza migranti e il diritto al lavoro, hanno raggiunto 1261 presenze. Invece, 270 presenze sono state acquisite dal progetto speciale “Diverso da chi?” e dalla proiezione del film “Un posto sicuro”. In definitiva, nell’ottava stagione di attività al TaTÀ, la programmazione a marchio Crest ha totalizzato 4115 presenze, dal novembre 2015 ad aprile 2016. Oltre alla programmazione segnatamente Crest, l’auditorium di via Deledda ospita anche diverse altre operosità: “La scena dei ragazzi”, la rassegna destinata alle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di I grado, e in generale le rappresentazioni per le scuole (8447 presenze), otto concerti della 72ma stagione degli Amici della Musica, sei repliche della stagione di prosa del Comune di Taranto e Tpp, il cartellone “Taranto in Movement” approntato dalle scuole di danza del comune capoluogo e oltre 20 serate di musica, esiti finali di laboratori di diverse associazioni culturali, recite amatoriali delle compagnie del territorio, presentazione di libri, esposizioni d’arte, showcase di lavori discografici. Un’attività che nel complesso ha portato al TaTÀ, al quartiere Tamburi, circa 20mila presenze. Numeri la cui portata non andrebbe sottovalutata neanche da una città che dimentica tutto facilmente. [t.sc.]

La narrazione del Crest batte l’emergenza culturale
Il condirettore artistico Colella: «Abbiamo avuto oltre 20 mila presenze in 6 mesi»

di TORE SCURO (*)

Un bilancio più che positivo in una città in estrema emergenza culturale. Affidiamo la lettura commentata dei numeri della stagione 2015/16 del TaTÀ a Gaetano Colella, condirettore artistico del Crest.
«I dati sono incontrovertibili: il Crest, con la sua proposta di spettacoli, raggiunge circa 4500 presenze nell’arco di sei mesi di programmazione, da novembre ad aprile. Una programmazione fatta coi soli fondi regionali. Se a questo aggiungiamo tutte le attività che si svolgono al TaTÀ, dalla rassegna “La scena dei ragazzi” fino alle compagnie amatoriali che allestiscono qui i loro spettacoli, superiamo le 20mila. Questi sono fatti e…».
Numeri importanti.
«Certo, importanti perché quello che abitiamo non è solo un teatro, ma un vero e proprio presidio culturale in un territorio difficile. Un quartiere dove recentemente si sono verificati atti criminali che riportano alla mente tempi bui della storia di questa città. Ma che al contempo è animato da un grande desiderio di riscatto, che può passare solo attraverso un processo di riappropriazione urbana, storica e identitaria della comunità».
La vicinanza del pubblico.
«Alla luce di questi dati la prima cosa che mi sento di fare è ringraziare il nostro pubblico, che ci segue dalla nostra prima stagione e che non smette di crescere. Che ci ha mostrato vicinanza nei momenti difficili, quando ad esempio tre anni fa dei vandali hanno rubato i cavi di rame dal teatro, lasciandoci senza elettricità e arrecandoci un danno di circa 10 mila euro. Il pubblico ci chiedeva come poteva aiutarci, in che maniera. Abbiamo chiesto loro di tornare a teatro, di non abbandonare il luogo, di sentirsi ancora parte di questa casa. Avvertire questa vicinanza è stato molto bello. Preciso che quel danno è stato riparato completamente a nostre spese».
Un teatro nel quartiere popolare ed operaio per eccellenza della città, ovvero il più contiguo alle svettanti ciminiere Ilva.
«Noi siamo qui dal gennaio del 2009, da prima che esplodesse il caso Ilva, e lo siamo per scelta. Il Crest nella sua storia ha sempre abitato luoghi particolarmente difficili, il progetto di questa compagnia è creare delle trame di racconto che possano generare scambi, relazioni e crescita culturale. E questo lo si fa meglio se si sceglie di lavorare in luoghi periferici, dove si avverte con ancora più urgenza il desiderio di attivare una “bonifica culturale”. Con le nostre stagioni, il quartiere Tamburi ha ospitato in questi anni artisti del calibro di Serena Dandini, Marco D’Amore, Antonio Rezza, Ascanio Celestini, Michele Riondino, Marco Baliani, Iaia Forte, Marco Paolini, Danio Manfredini… E tutto questo, ci tengo a ribadirlo, senza percepire mai un euro di contributo dal Comune di Taranto».
Un teatro da abitare, da usare.
«Gran parte del nostro sforzo va nella direzione della diffusione del teatro come mezzo di socializzazione e di condivisione esperienziale. Ogni anno i nostri laboratori teatrali di base raccolgono dai 40 ai 50 partecipanti che non hanno l’obiettivo di diventare attori, ma di “usare” il teatro come mezzo creativo per la propria crescita personale, professionale e sociale. Sono, quindi, laboratori che creano quella “attivazione drammatica della comunità” che recentemente abbiamo raccontato in un convegno a Bologna: i cittadini, di tutte le età, accedono al teatro e gradualmente ne diventano parte. Prima sono semplici cittadini, poi si trasformano in spettatori-attori. Ma questo è un processo lungo e, soprattutto, silenzioso che non salta agli occhi di chi guarda in maniera superficiale».
Solo professionisti del teatro. Meglio se tarantini.
«Negli ultimi tempi nelle nostre produzioni teatrali stiamo felicemente coinvolgendo diversi attori tarantini, professionisti del teatro che si sono formati nelle accademie teatrali italiane e che hanno deciso di tornare nella loro città a lavorare. Questo è estremamente positivo per due motivi: primo perché le storie che il Crest racconta sono radicate nel territorio e quindi avere professionisti che conoscono la realtà e che ci hanno vissuto aiuta il processo creativo, secondo perché, dato che il Crest ha sempre lavorato con professionisti, finalmente possiamo lavorare con attori che non vengono da lontano, se non da lontanissimo. A loro va il mio ringraziamento: essere professionisti in questo territorio non è affatto facile».
Fare sistema o almeno provarci.
«Certamente il lavoro più difficile in questa città, è inutile negarlo, è mettere insieme le persone, i diversi attori sociali. Però non bisogna nemmeno trincerarsi dietro questo alibi che spesso diventa un luogo comune. Con le persone bisogna parlare e cercare di avere obiettivi comuni, evitare di creare steccati anche lì dove non ce ne sono. Noi collaboriamo con decine e decine di realtà del territorio. Con alcuni lo facciamo su singoli progetti, con altri su percorsi più articolati. Ma dobbiamo farlo, perché il rischio che io vedo è che questa città viva una sorta di autismo sociale, una logica del “con me o contro di me” che non funziona, in nessun caso. Spesso questa è la diretta conseguenza di una tensione sociale fortissima, ma dalle tensioni si esce non obbedendo all’istinto, ma ragionando, dialogando e non mandandola a dire».
All’inizio fu “stArt up”.
«Uno dei risultati migliori della collaborazione fra i vari stakeholder cittadini è stato il festival “stArt up”, dove siamo stati in grado di collaborare in tanti, dai musei alle associazioni cittadine, per animare la città in un progetto di turismo culturale. Chiaramente mettere insieme tante realtà è complesso, ma quando si lavora su fatti e non su progetti aleatori, la città si dimostra più concreta di quanto si pensi. “stArt up” è stato la dimostrazione di come il teatro, i musei, le visite guidate e l’enogastronomia possono essere, se ben gestite, un unicum interessante da proporre ai cittadini e agli avventori».
Niente quarta edizione.
«Quest’anno il festival è in stand-by. Per una precisa scelta della rete una.net che lo organizza da ormai quattro edizioni. Il connubio felice che ci permetteva di attingere a più forme di finanziamento per realizzarlo si è interrotto, producendo una fase di incertezza che non ci permette di lavorare. Ogni attività ha un costo e non si può immaginare di lavorare senza avere certezza che i lavoratori vengano pagati. Un festival come “stArt up” richiede almeno sei mesi di organizzazione, dodici spettacoli da realizzare nelle location diverse della città. Nelle ultime edizioni ha ospitato circa sessanta fra operatori e critici/giornalisti nazionali. No, non si improvvisa un lavoro di queste dimensioni. Se non abbiamo certezze non possiamo lavorare. Abbiamo bisogno di progettazione a lungo termine».
Note dolenti. Le solite.
«Purtroppo il problema è di natura amministrativa ma anche politica. Noi siamo un’impresa culturale. Spesso i nostri interlocutori sono gli amministratori, coi quali si avviano percorsi di dialogo e di collaborazione. Tuttavia non si riesce ad approntare un progetto lungimirante se gli interlocutori cambiano ogni sei mesi. Ad esempio, negli ultimi quattro anni l’assessore alla cultura del Comune di Taranto è cambiato almeno quattro volte. Viene allora da chiedersi: qual è il progetto culturale di questa amministrazione?».

(*) Pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 16 luglio 2016

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