Capatosta

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Crest – Teatri Abitati

Capatosta

scritto da Gaetano Colella, regia Enrico Messina, con Gaetano Colella e Andrea Simonetti, composizione sonora Mirko Lodedo, scene Massimo Staich, disegno luci Fausto Bonvini, tecnico di scena Vito Marra, in collaborazione con Armamaxa teatro, spettacolo vincitore bando Storie di Lavoro 2015

 
 
 
 
 
 
 

Siamo nello stabilimento più grande d’Europa, l’Ilva. Siamo in uno dei tanti reparti giganteschi della fabbrica, Acciaieria 1 reparto RH. Qui l’acciaio fuso transita per raggiungere il reparto della colata e gli operai sono chiamati a controllare la qualità della miscela. La temperatura è di 1600 gradi centigradi.
Due operai sul posto di lavoro. Il primo è un veterano, venti anni di servizio alle spalle e un carattere prepotente, di chi si è lavorato la vita ai fianchi e il poco che ha lo difende coi denti, compreso il suo piccolo desiderio: fuggire da Taranto, coi suoi figli, per non tornarci più. Il secondo è una matricola, un giovane di venticinque anni appena assunto nello stabilimento.  I due potrebbero essere padre e figlio.
In questo stabilimento dal 1962 ci sono generazioni di operai che si avvicendano, si confrontano, si scontrano e si uniscono. I padri hanno fatto posto ai figli e ai nipoti senza che nulla sia intervenuto a modificare questo flusso di forza lavoro. Si sono tramandati saperi ed esperienze così come usi e abusi, leggi tacite e modi di fare. Sembra che in questo scenario nulla sia destinato a mutare, che i figli erediteranno fatica e privilegi dei padri. Ma è davvero così?

The biggest factory of Europe, the ILVA. We are into one of the many giant departments of factory. Steelworks 1 department RH. Here the fused steel transits to reach the casting’s department and the workers must check the quality of blend. The temperature is 1600 degrees.
Two workers on the job. One of them is a veteran, twenty years of experience and with an assertive personality as he who worked obstinately every day to build his little position, that he defends with teeth, including his small wish: escape from Taranto, whit his sons, and never come back. The other one is a newbie, a young just employee into the factory. They could be father and son.
In this factory since 1962 there are generations of workers who take turns, who confront each other, collide and join. The fathers have made space for children and grandchildren without that nothing has changed this flow of working force. They have been handed down knowledge and experiences, as well as the uses and abuses, tacit laws and ways of doing.
It seems that into this scenario nothing is destinated to change, that the children will inherit fatigue and privileges of the fathers. But is it really so?

Nuova drammaturgia, teatro civile… etichette possibili per una urgenza che non vuole essere chiusa o bollata con un’etichetta, ma vuole essere un prendere parola, restituire un sentimento di dolore e di impotenza insieme, condividendolo con una città e non solo, come solo il teatro può fare. Solo i gesti, i volti, le voci di attori possono riuscire a raccontare il sangue di una città ferita e divisa. Oltre l’informazione.

 
: : video integrale dello spettacolo (65′) : :
 

note di drammaturgia
Lavoro a Taranto da tanto tempo. La mia Compagnia abita il quartiere Tamburi da più di cinque anni.  Abbiamo un teatro a poche centinaia di metri dallo stabilimento siderurgico. Viviamo quotidianamente gli odori, le polveri, i rumori, le nubi spettacolari che si levano, ma anche le testimonianze, le storie e tutte le chiacchiere inutili dette e scritte su questa città, su questo disastro ambientale, su questa gente. Io, per raccontare quello che sta avvenendo, sono andato a parlare con gli operai. Solo loro potevano restituire la dimensione del dramma, di quella frattura irreconciliabile fra salute e lavoro che si sta vivendo in maniera sempre più violenta negli ultimi mesi. Solo così ho capito che il mondo operaio non è come lo vediamo in tv, quando scorrono quelle interviste in cui sono schierati di fronte alle telecamere con gli elmetti in testa e la faccia incazzata. Non è un blocco unico di coscienze allineate su una posizione. Ho trovato invece un universo pieno di uomini soli, spesso sbandati, che non sanno esattamente cosa fare né cosa sarà di loro, che non hanno punti di riferimento, che non conoscono i loro diritti e altri pronti a inventarne di nuovi; un universo profondamente lacerato da posizioni molto distanti, fra chi medita soluzioni, chi vendette, chi rancore, chi invece non se ne frega niente come non se n’è mai fregato. Chi pensa di scappare via, chi di lottare. E da queste figure che sono nati i due personaggi di questa storia. Perché incarnano lo spirito di una comunità intera e, probabilmente, di tutta la nostra nazione lacerata fra l’indifferenza da un lato e la voglia di cambiare dall’altra. [Gaetano Colella]

note di regia
L’impatto quando ci arrivi di notte dalle colline del nord Brindisino è stupefacente. Un corpo unico: si confondono la fabbrica e la città, si mescolano, si compenetrano. Sembrano amanti distesi sul golfo in un abbraccio che pare non possa sciogliersi mai. A guardare gli sbuffi, le improvvise gigantesche nuvole di fumo che si alzano dai camini sembra di sentire il respiro affannoso del loro amplesso; il respiro delle molte vite che li abitano, li fanno vivere, li nutrono e se ne nutrono da generazioni. Generazioni, che si succedono, e scorrono in quei due corpi come sangue vivo. Padri, madri, figli. Ma quando ci arrivi di giorno, dalle stesse colline, il panorama cambia. L’abbraccio sembra trasformarsi in una morsa, un morso anzi. Soffocante. I camini altissimi, le immense costruzioni dei corpi della fabbrica, gli spazi sterminati occupati da distese di coils che non ce la fai a contarli, sono invadenti, la schiacciano la città, la costringono in un angolo; alle corde. Velano tutto di un rosso che non sa risplendere, polvere di una passione ormai sbiadita; di una promessa non mantenuta. E quell’abbraccio allora svela le contraddizioni, il tradimento, le divisioni ormai profonde e le lacerazioni di quei corpi che non si amano più.  Generazioni che per troppo tempo non si sono parlate, si sono tradite. Padri che hanno scelto per i figli; madri che non hanno saputo lasciarli andare. Figli che, mollemente, si sono adagiati a subire il quotidiano senza speranza di una storia finita ma che non si risolve mai. La luce del giorno è crudele, spietata, non lascia spazio al dubbio: il fumo dei camini è veleno, le costruzioni degli impianti sono “bruttezza”, il corpo della città disfatto, cadente, malato. Bisogna che qualcosa accada, che si rompa quel precario equilibrio eppure immoto. Bisogna che si separino gli amanti. Bisogna che si scontrino quei padri e figli. Bisogna. E per farlo serve che qualcuno cominci a urlare. [Enrico Messina]

 

 

[…] Sull’accordatura attenta della regia di Enrico Messina si passa, in un delicatissimo equilibrio, da toni ironici a sfumature più drammatiche, senza mai calcare la mano su nessuno dei registri possibili, proprio perché tutto è straordinariamente vero a pochi metri da quel palcoscenico […] Nello scambio di battute tra i due i nodi drammaticamente problematici di quella situazione vengono espressi proprio in faccia a quella stessa società che li vive.

Antonio Audino – Il Sole24ore

Capatosta è uno spettacolo in cui le varie componenti trovano un mirabile equilibrio, a cominciare da una drammaturgia che sa ben schivare retorica e già detto a favore di un’analisi impietosa che evidenzia contraddizioni e problemi. La regia sapiente di Enrico Messina sembra esaltare i momenti drammatici, che poi stempera con virate inaspettate producendo spaesamenti opportuni e grande ci è sembrata la prova attorale di Gaetano Colella, autore anche del testo […] Tanto è esuberante il suo personaggio, tanto gioca su toni sommessi, che nel finale raggiungono toccante intensità quello del bravo Andrea Simonetti.

Nicola Viesti – Hystrio 

A prenderci a pugni nello stomaco è stato Capatosta […] Un esempio di teatro sociale fatto con mezzi rigorosi (e non minimi) e recapitato con una regia e un’esecuzione eleganti, non ingombranti, al servizio di una denuncia frontale sì dello scandalo industriale, ma ancor di più del terreno (sotto)culturale che lo riceve, tra l’utopia di una riaccesa miccia di lotta di classe e l’ignavia in cui gli operai rischiano di scivolare.

Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica 

I temi che tocca questo spettacolo sono innumerevoli e non solo legati ai problemi dell’inquinamento, dello sfruttamento, delle malattie dell’industria tarantina: questioni come la (presunta) assenza di una classe operaia […], dell’impossibilità della lotta di classe, della sostenibilità delle proprie scelte di vita e delle reazioni rispetto a quelle altrui travalicano di frequente il caso Ilva – seppure profondamente radicato e radicante nella messinscena – per parlare molto più ampiamente del presente. E delle possibilità di scampo.

Roberta Ferraresi – Il Tamburo di Kattrin 

Uno spettacolo di intenso approdo. Il lavoro attorale fisico e verbale, gesto e parola composti senza mischiare i piani e ben definendo ritmi e tempi di commistione, produce una compiutezza che è snellezza di cifra, intelligibilità che non vuol dire semplicistico, ma funzione per alta fruibilità.

Emilio Nigro – Rumor(s)cena.com

Uno scontro fisico, passionale, generazionale, valoriale, tra il benessere acquisito da difendere ad ogni costo, anche rimettendoci la salute e la vita, ed i sogni di rivoluzione con i ruoli invertiti rispetto alla stereotipata visione dei giovani come svuotati e passivi, dediti soltanto allo sport dello smart phone. Un teatro necessario.

Tommaso Chimenti – Il FattoQuotidiano

Un «amore» che uccide, come pure capita. Capatosta, spettacolo della compagnia tarantina Crest, su testo di Gaetano Colella e con la regia di Enrico Messina, nel suo passaggio sulla scena del Teatro Kismet a Bari ha confermato che per fare «teatro politico» oggigiorno occorre stare lontani dalla politica del politichese, dalla retorica d’uso sulla condizione lavorativa o sull’ambiente, dalla grancassa di stampo para-televisivo e mediatico […] Merito di questo Capatosta è di riuscire a trasferire la terribile verità del dato cronachistico e/o politico in colloquiale verità di rapporti quotidiani, fra tragedia e ironia,fra un caffè alla macchinetta e un massaggio su quella poltrona di pelle gialla che Capatosta è riuscito a imboscare.

Pasquale Bellini – La Gazzetta del Mezzogiorno

[…] racconta con la semplicità e la forza di parole, volti e gesti quotidiani, quelli dei tanti operai chiamati a scegliere tra il lavoro e la vita, il dramma di una città ferita e divisa. Sono come due ventricoli di un cuore, la città e lo stabilimento, in un movimento continuo e oscillante tra vita e morte, agìto sulla scena, con una apparentemente disarmante semplicità, da due uomini. Un sogno divenuto incubo si palesa nella banalità delle azioni quotidiane che diventano balletto quando i due operai si muovono ricordando delle marionette svuotate da ogni consapevolezza.

Elisabetta Reale – Klpteatro

Questo spettacolo, che in italiano significherebbe “testa dura”, è profondamente commovente. Il pubblico ride. Ma il vortice conclusivo, simbolicamente rappresentato da una poltrona girevole, è coinvolgente.

Emanuela Ferrauto – dramma.it

Colella si rivela maestosa marionetta agente, memore dell’eredità attoriale eduardiana, maschera iterante di un “come fa un uomo a diventare una cosa?”. Il testo di Colella nasce da una profonda riflessione […] e trova rispondenza in una storia violenta che ripercorre i meccanismi quotidiani di sopravvivenza, raccolti attraverso le generose testimonianze di operai dell’Ilva “amanti uniti in un abbraccio letale”.

Vincenza di Vita – aTeatro.it

Spettacolo di servizio, nel senso più nobile del termine, Capatosta, pur con qualche doverosa concessione didascalica, vive sul  rapporto intimo, conflittuale  tra i due uomini, un rapporto che però alla fine la bella drammaturgia dello stesso Colella trasforma in un rito pietoso che accomuna in una sorta di identità un padre e un figlio, costretti a vivere, loro malgrado, pur in due modi diversi, in un inaccettabile inferno terrestre.

Mario Bianchi – Eolo

Un gran bel problema, insomma, portato in scena da Gaetano Colella e Andrea Simonetti, con la regia di Enrico Messina. E mentre le coscienze si animano in sentimenti contrapposti si consuma giorno per giorno il dramma di una comunità che vive una guerra quotidiana tra salute e lavoro apparentemente senza vie d’uscita. Grande merito dunque a questa compagnia che ha saputo portare in scena un dramma così profondo.

Enrico Cavallo – Sannio Teatri e Culture

Non è un “j’accuse” diretto a politica, manager o controllori. E’ oltre la querelle tra politica e magistratura. Lo spettacolo, scevro da facili ed inutili retoriche, fuori da risposte ideologiche e preconfezionate, va visto anche perché offre la speranza, forse i sogni dovranno essere diversi, restano però un orizzonte per cui valga, nonostante tutto, ancora sperare e lottare.

Marisa Paladino – Oltrecultura

Lavoro valido, con un crescendo interpretativo di Gaetano, che vuole prendere parola, restituire un sentimento di dolore e di impotenza insieme, quasi banalizzandolo nella monotonia quotidiana mentre racconta la sua vita in fabbrica.

Silvia Viterbo – Affaritaliani

Tra i due operai dell’acciaieria 1 va simbolicamente in scena la consegna del testimone vissuta in centinaia di famiglie locali. I protagonisti potrebbero essere padre e figlio e non sarebbe un’utopia, nello stabilimento in cui per quarant’anni le generazioni si sono avvicendate, confrontate e scontrate. Ma il tempo dei privilegi – coi padri a fare posto ai figli e ai nipoti: quando in riva allo Ionio avere un mutuo era ancora un obiettivo realistico – è finito da un pezzo. […] A Ettore Messina, che dello spettacolo è il regista, va il merito di aver saputo portare in scena il corpo di una città malata e col fiato ormai cortissimo.

Fabio Di Todaro – La Stampa

 

scheda artistica

Capatosta – crediti fotografici Marco Caselli Nirmal